Una circolare da leggere (almeno) due volte…
Il peggior modo di leggere la circolare n. 2 dell’8-1-2010 (quella sul tetto del 30%…) è di farlo con gli occhi dell’emotività e della rabbia, rispetto a ciò che si vede nei centri di accoglienza, nei campi di calcio, nelle periferie devastate delle nostre città, nelle bidonville indegne del nostro Paese.
Il peggior modo di leggere la circolare n. 2 dell’8-1-2010 (quella sul tetto del 30%…) è di farlo con gli occhi dell’emotività e della rabbia, rispetto a ciò che si vede nei centri di accoglienza, nei campi di calcio, nelle periferie devastate delle nostre città, nelle bidonville indegne del nostro Paese. Ma sarebbe un errore opporre ai rischi striscianti dell’intolleranza, di cui ha parlato B.Spinelli su “La Stampa”1, una sorta di buonismo di maniera, che rifiuta di misurarsi con l’esigenza di una progettualità concreta, di regole certe, di impegni operativi, per rendere effettivo i principi di una scuola inclusiva e di una istruzione di qualità per tutti.
E’ evidente che dietro la cm 2/2010 ci sono anche tensioni ed interessi politici, a volte di breve respiro, ma i problemi che la nota ministeriale pone sono reali e richiedono una riflessione approfondita da parte della scuola e dei suoi operatori, come pure della società intera.
Partire dai dati
Un ragionamento pacato, alla ricerca di soluzioni praticabili, deve partire da alcuni dati di fatto:
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nelle scuole del nostro paese, la presenza di allievi di cittadinanza non italiana è aumentata nell’ultimo decennio in modo esponenziale, dal 2,2 % del 2001 al 6,4 % del 2010, avvicinando l’Italia alle medie degli altri paesi europei;
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oggi la quota di non cittadini italiani nati in Italia (in Francia sarebbero cittadini a tutti gli effetti!) oscilla ormai attorno al 35%, e supera la maggioranza tra i bambini della scuola dell’infanzia (è del 41,1% nelle elementari), ponendo l’inedito problema identitario degli immigrati di seconda generazione;
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esiste una fascia, che si aggira sull’8% dei ragazzi, di prima immigrazione, che spesso si presenta a scuola, con scarsissimi o inesistenti livelli di conoscenza della lingua e del nostro contesto culturale;
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la scuola viene lasciata sola nell’affrontare questa nuova situazione: in poche province sono previsti insegnanti statali “aggiunti” per l’alfabetizzazione e la mediazione culturale; i fondi per l’aggiornamento scarseggiano; le ultime riforme riducono i tempi della scuola, della compresenza, della pluralità docente, cioè di molti elementi utili a costruire una scuola accogliente;
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ci sono esperienze pregevoli di Enti locali, di cui si dà conto nell’utile documento che l’ANCI ha presentato il 2-12-20092 alla Camera dei Deputati, volte a costruire strutture di alfabetizzazione, protocolli per l’accoglienza, interventi di mediatori culturali, ma le restrizioni della finanza pubblica rendono difficile ampliare e diffondere tali “buone pratiche”;
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le dinamiche dell’immigrazione (degli adulti) sono scarsamente governate, provocando fenomeni di addensamento in alcune aree del paese o dei territori o delle città: di fronte a questo dato il tema della quota del 30% nella scuola appare del tutto ininfluente, perché dovrebbe chiamare piuttosto in gioco le scelte pubbliche e private in materia di accessi al lavoro, residenzialità, urbanistica, ecc.
Vien da dire che la società civile sembra indignarsi di fronte alle situazioni che si determinano in alcune aree critiche del Paese, ma è assai avara nel predisporre le condizioni per una serena e civile convivenza. E’ più facile assecondare l’emotività e la paura, piuttosto che investire in soluzioni praticabili che hanno comunque dei costi. Se la presenza di stranieri è un fattore di ricchezza per un territorio (pensiamo a Reggio Emilia, una delle province con più alto tasso di reddito e, in parallelo, di incidenza di abitanti “non italiani”), una parte di quella ricchezza –pubblica e privata- dovrebbe rifluire verso la scuola ed i servizi sociali, per assicurare la tenuta del sistema e la sua coesione sociale. Dunque ha ragione il Presidente della Camera, on. Fini, quando cerca, inutilmente, di porre la questione della cittadinanza (da conferire a certe condizioni) come elemento di sviluppo civile del nostro paese, al di là di ogni tentazione xenofoba.
Il difficile compito della scuola
La scuola vive in questo contesto sociale di forti emozioni attorno al tema dell’immigrazione. Pensiamo alla controversa questione del reato di immigrazione clandestina, che sembra cozzare contro il diritto di asilo e di accoglienza, nella scuola certamente il diritto all’istruzione, come diritto inalienabile della condizione umana, senza restrizioni o subordinate. La scuola italiana riconferma, anche nelle situazioni più difficili, la sua vocazione inclusiva e all’accoglienza. Basta scorrere i dati che rivelano la complessità del fenomeno (191 le nazionalità presenti)3, che si presenta assai diffuso in certe aree del paese piuttosto che in altre, con addensamenti significativi in taluni contesti, con inaspettate presenze in piccoli centri ed in realtà apparentemente lontane dai grandi flussi migratori.
La scuola è in grado di accogliere e lo fa in base alle sue tradizioni e capacità. Ciò avviene senza particolari enfasi e difficoltà nella scuola dell’infanzia ed elementare, anche se al termine del ciclo, già si manifesta un forte dislivello nei rendimenti scolastici tra allievi italiani e non italiani. Quando l’apprendimento richiede l’uso di codici linguistici sempre più raffinati e strutturati emergono difficoltà e dislivelli nei risulti. Ad esempio, le prove Invalsi nelle elementari, la prova nazionale dell’esame di licenza media, le stesse prove Ocse-Pisa testimoniano un progressivo incremento del differenziale nei risultati4. Anche i dati ufficiali sulla “dispersione” (bocciature, ritardi, abbandoni) testimoniano queste difficoltà: a 7 anni già il 12,3% dei bambini stranieri è in ritardo, a 13 anni lo è il 63,7%.
I fattori di rischio
Di fronte a questa situazione è necessaria una seria riflessione. Non basta stigmatizzare – come fa la cm 2/2010- le classi troppo eterogenee come “fattore di rischio di parziale o totale insuccesso formativo per tutti” gli allievi di quella classe (uno scivolone pedagogico in una circolare costruita quasi sempre in punta di penna e con equilibrio). Una simile affermazione, presa alla lettera, porterebbe al superamento del principio dell’integrazione scolastica dei disabili (e allora, le belle “Linee guida” sull’handicap, appena firmate dal Ministro il 4 agosto 2009?)5, al ripristino di classi differenziali e speciali, nel migliore dei casi alla formazione di classi omogenee di livello, contravvenendo ad un assunto non solo italiano dello streaming, come efficace strategia per stimolare l’apprendimento in un ambiente educativo al contempo, cooperativo e competitivo.
Dovrebbe, invece, essere stigmatizzata la rigidità dei nostri modelli organizzativi, in cui la scacchiera degli orari settimanali delle discipline, l’organizzazione delle cattedre e degli orari dei docenti, la compattezza monolitica dei gruppi-classe, non lascia spazi a margini di flessibilità, di opzionalità, a percorsi individuali, ad interessi ed esigenze di approfondimento. Siamo ben lontani da quanto auspicato dai principi dell’autonomia didattica ed organizzativa, affermati nel regolamento sull’autonomia ben 10 anni fa (Dpr 8-3-1999, n. 275) e richiamati anche dalla circolare.
Una maggiore personalizzazione/individualizzazione dei percorsi potrebbe anche smontare l’ansia della classe di inserimento, per cui viene confermata in via ordinaria il criterio dell’età anagrafica. La cm 2/2010, comunque, suggerisce di sottoporre l’alunno in ingresso ad una prova di accertamento linguistico per stabilire la classe di iscrizione, come già previsto dalla normativa vigente6.
Il nodo della scuola superiore
La situazione dell’integrazione si aggrava nel passaggio dalla scuola di base alla scuola secondaria di secondo grado, sia in termini di rigidità degli impianti, ma soprattutto di stratificazione nelle scelte e negli orientamenti di studenti e famiglie. Risulta addirittura patetico ricordare il fatto che solo il 2 % degli studenti dei licei sono non italiani, mentre lo è quasi il 9 % dei professionali. Possono le scuole, da sole, invertire questa tendenza? Pura velleità, se non si mette mano ad una radicale riforma culturale della nostra scuola secondaria superiore (ove non basta il restyling dei nuovi regolamenti). L’unica proposta per evitare ghettizzazioni sarebbe quella di costruire poli scolastici (o campus), ben caratterizzati per l’asse di riferimento (scientifico, umanistico, sociale, tecnologico, linguistico, economico, ecc.), ma aperti ad una pluralità di utenze e di percorsi (liceali, disinteressati, ma anche professionalizzanti, brevi, di alta formazione, di educazione permanente, ecc.) in cui intrecciare presenze sociali e provenienze: un problema di democrazia e di equità per gli italiani, prima ancora che per gli stranieri7. La circolare si limitata ad ipotizzare “moduli di apprendimento e percorsi formativi differenziati”.
Le proposte operative della circolare
Certamente, un eccessivo addensamento di allievi non italofoni all’interno di una singola classe può rendere più difficile una efficace integrazione. Su questo specifico aspetto, ma non solo, si dirige l’attenzione della CM 2/2010. Le ipotesi suggerite dalla circolare, secondo alcuni in modo eccessivamente intrusivo rispetto all’autonomia delle scuole (ma processi così delicati vanno “governati”), non sembrano di facile applicazione, ed il testo stesso della nota lo riconosce, proponendo una serie di deroghe, eccezioni, distinguo, non sempre facili da interpretare e da calare nei contesti operativi. La competenza, per le deroghe e gli adattamenti ai tetti, è comunque demandata al Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale.
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I “non” cittadini
Partiamo dalla fatidica quota del 30% e dal suo conteggio (posto che questa sia una soglia che abbia un suo significato)8. Chi sono gli allievi con cittadinanza italiana? –si chiede, con toni ironici l’Associazione Docenti Italiani, che ha prodotto una ricca documentazione in merito9. Certo esistono le leggi italiane sulla cittadinanza, che fanno riferimento al diritto di sangue piuttosto che a quello del suolo, ma ci sono proposte di legge in discussione volte a riformulare questo concetto, a renderlo più aperto alle istanze di una società multietnica, accompagnandolo –ad esempio- all’acquisizione di un grado di padronanza della lingua e dei riferimenti giuridici e costituzionali che fondano la nostra convivenza civile: una sorta di patriottismo “costituzionale” (Habermas), dove lo stare insieme è dovuto proprio alla condivisione delle leggi fondamentali piuttosto che alla appartenenza etnica. La mancanza del requisito della cittadinanza, un concetto oggi mutevole ed in evoluzione, sembra configurare una condizione di minorità che, tra l’altro, sarebbe soggetta a condizioni aleatorie (il ritrovarsi o meno in un territorio ad alta o bassa densità di immigrati). Tra l’altro, l’istruzione potrebbe invece agevolare un percorso verso la cittadinanza, ma il paradosso è quello di porre condizioni ai non cittadini per la loro istruzione, facendola dipendere dai contesti territoriali (a bassa o alta densità di immigrati).10
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la coercizione negli spostamenti
Ammettiamo che in un plesso o in un istituto si determini il superamento della soglia del 30%. Come individuare i “perdenti posto”? Come costringerli ad uno spostamento lontano magari dalla propria abitazione? Con quali motivazioni farlo, per non dare l’impressione di una scelta coatta? Non ignoriamo che negli Stati Uniti per combattere la segregazione razziale si adottò negli anni ’60 il cosiddetto “forced busing” per riequilibrare la composizione etnica di determinati plessi, se si vuole, in una ottica anti-segregazionista. Ma da noi? Giustamente la c.m. 2/2010 imposta il problema non in termini di obbligo per i genitori allo spostamento, ma come dovere delle istituzioni di organizzare un servizio educativo in cui ci sia un equilibrio di presenze in classe (una volta le avremmo definito classi “equieterogenee”). Comunque, solo il 5% delle scuole supera la soglia del 30% di presenza di non italofoni.
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La concertazione territoriale
Giustamente la circolare insiste sul coinvolgimento del territorio (a partire dagli Enti locali competenti: Comune e Provincia, ma anche delle associazioni no-profit e del volontariato) nel promuovere programmi di più vasto respiro (coordinamento territoriale delle iscrizioni, servizi di alfabetizzazione in rete, mediazione interculturale, ecc.), in grado di evitare l’acutizzarsi di situazioni critiche solo in alcune realtà. Sappiamo bene come spesso l’autonomia delle scuole si sia a volte tramutata in una sorta di autarchia competitiva, in cui ogni scuola tende a chiudersi e a gestirsi in proprio problemi e risorse (e la presenza di allievi stranieri può essere vista di volta in volta come una minaccia da evitare o come una inaspettata risorsa per la sopravvivenza di una scuola). In altre stagioni fu possibile attivare organismi di pilotaggio interistituzionale, dentro e fuori la scuola, come nel caso dell’handicap, occorre promuovere un analogo sforzo per l’integrazione interculturale. La circolare indica alcuni organismi di governance da istituire ai diversi livelli (nella scuola, nel territorio, in regione, nazionale)
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La soglia di competenza linguistica
Uno dei motivi di deroga dal tetto del 30% è costituito dalla padronanza della lingua da parte degli studenti immigrati (a maggior ragione se questi sono nati in Italia ed hanno alle spalle già un percorso di scolarizzazione, nel nido, nella materna, nella scuola elementare). Ma come si accerta un livello di competenza linguistica? E qual è una soglia accettabile, che sia interpretata come una prima base di partenza da incrementare ulteriormente grazie ai processi di scolarizzazione? Esistono standard internazionali di competenza legati al quadro europeo delle lingue, quindi anche per l’italiano come seconda lingua. Sono disponibili strumenti e prove di accertamento di tali livelli, come quelli prodotti dalla Università per stranieri di Perugia. Tuttavia, l’acquisizione di una lingua diversa da quella materna non è un semplice problema tecnico, di acquisizione fredda di un nuovo codice, ma si lega a fattori culturali, psicologici, emotivi, sociali.
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Italiano lingua due o interlingua?
Nell’apprendente una nuova lingua si crea uno spazio di connessione tra lingua già posseduta e nuova lingua (chiamato interlingua dagli studiosi), assai dinamico e ricco dal punto di vista cognitivo (se si lavora con intelligenza su di esso), che non può essere misurato solo in termini di quantità di errori e di progressiva correttezza del nuovo codice appreso. Parlare di interlingua significa valorizzare le prime competenze degli apprendenti11. Inoltre, come precisa la cm 2/2010, un conto è la lingua italiana utilizzata per i normali scambi della vita di relazione –che può essere incrementata attraverso un tessuto scolastico ricco di opportunità di scambio -, un conto è la lingua italiana da utilizzare per studiare e per inoltrarsi all’interno di specifici saperi disciplinari. L’italiano L2 per studio richiede un tirocinio e tecniche particolari (e un presidio linguistico più forte all’interno delle nostre scuole). Ritorna, nuovamente, il problema generale dello “stato” dell’insegnamento delle lingue all’interno dei nostri curricoli. Una società plurilingue come è ormai la nostra, che si riflette nella presenza di classi plurilingue, richiede un più consistente investimento sulla formazione dei docenti e sul rinnovamento di metodi e ambienti di apprendimento.
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L’organizzazione didattica
Non esistono modelli vincenti per l’integrazione interculturale nella scuola. Ogni paese ha sviluppato proprie strategie culturali ed organizzative in merito all’integrazione scolastica degli immigrati, coerenti con le scelte più generali sulla politica dell’immigrazione: dal multiculturalismo tipico della Gran Bretagna alle politiche di assimiliazione della Francia. Per il nostro paese si è parlato spesso di una “via italiana all’integrazione”12, per segnalare la propensione inclusiva della nostra scuola, specie di quella di base e di come attorno alle scuole accoglienti sia possibile sviluppare inedite forme di dialogo, incontro, confronto tra culture, capaci di coinvolgere anche gli adulti. Sarebbe deleterio interrompere questo processo. Tuttavia, mantenere la “via italiana” richiede progetti, risorse, concretezza di lavoro, come ben segnala il documento emanato nel 2007 dal Ministero dell’istruzione. Il problema non è aggirabile solo immaginando classi ponte, dove realizzare una sorta di alfabetizzazione “forzata” o di decontaminazione culturale (vengono in mente gli immigrati italiani “in quarantena” sulle banchine di Ellis Island, all’inizio del ‘900).
Ogni singola scuola, le scuole in rete, il territorio, devono poter offrire una pluralità di opportunità e metodologie, che possono andare dai corsi intensivi, prima e a fianco della scuola, al potenziamento dell’offerta di lingua italiana nei currricoli (cui si fa cenno nel regolamento del primo ciclo, il Dpr 89/2009), alla facilitazione negli strumenti e nei sussidi. La cm 2/2010 contiene un’esauriente rassegna di tali possibilità, il problema semmai è tradurle in linee di lavoro praticabili.
Ad impossibilia, nemo tenetur (nessuno è tenuto a fare l’impossibile)
Dopo l’impatto duro che la circolare ha avuto al suo primo apparire, oggi il clima sembra più sereno, anche per le precisazioni che sono giunte dallo stesso Ministro, con una interpretazione più aperta delle misure prospettate. Ad esempio, con una attenzione particolare agli allievi non italiani nati però in Italia, con la considerazione del livello di conoscenza della lingua italiana. Con realismo, la circolare ammette che in certe situazioni sarà impossibile dare attuazione al principio del tetto massimo, come nel caso di piccoli comuni, ad alta intensità immigratoria, con poche istituzioni scolastiche, o di quartieri di grandi città in analoghe situazioni, ad istituzioni “in continuità” (una elementare con una media dirimpettaia…), ecc. In questi ed in altri casi diventa improbabile promuovere spostamenti radicali di utenza, ai quali occorrerebbe garantire comunque agevolazioni costose ed un servizio educativo di qualità.
Ma allora torniamo al punto di partenza ed alle scelte complessive che si intendono fare sulle politiche dell’immigrazione, sul futuro della scuola e quindi della nostra società.
di Loretta Lega, già Assessore all’Istruzione del Comune di Forlì
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1 B.Spinelli, Se questi sono uomini, in “La Stampa”, 10 gennaio 2010.
2 Il dossier dell’ANCI è rintracciabile sul sito di “Notizie della Scuola”: http://www.notiziedellascuola.it/news/anci-alla-camera-rilanciare-un-piano-nazionale-di-integrazione-anche-per-alunni-stranieri-nelle-scuole
3 Le nazionalità più rappresentate sono, nell’ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ecuador, Tunisia, Filippine.
4 Nelle prove di lettura, il dato medio dei quindicenni italiani è di 473 punti, quello degli stranieri di 415. Per una analisi di dettaglio, cfr. D.Mantovani, Gli studenti stranieri sui banchi di scuola in Emilia-Romagna, in G.Gasperoni (a cura di), Le competenze degli studenti in Emilia-Romagna. I risultati di Pisa 2006, Il Mulino, Bologna, 2008.
5 L.Lega, Linee guida sull’integrazione degli alunni con disabilità, in “Notizie della scuola”, n. 1, 1-15 settembre 2009, Tecnodid, Napoli.
6 Dpr 31-8-1999, n. 394 (Regolamento di attuazione delle norme in materia di immigrazione).
7 D.Chiesa, L’improbabile riforma delle superiori, in “Rivista dell’istruzione”, n. 5, ottobre-novembre 2009, Maggioli, Rimini.
8 Nel Dpr 394/1999 cit. si suggeriva di non costituire classi in cui la presenza di alunni non italiani fosse preponderante (maggioritaria?).
9 Il dossier dell’ADI è reperibile all’indirizzo: http://www.adiscuola.it/adiw_brevi/?p=2486
10 Fa molto discutere il Disegno di legge n. 103-A che introduce modifiche alla legge vigente (la n. 91 del 5 febbraio 1992), perché collega l’acquisizione della cittadinanza degli stranieri nati in Italia alla residenza continuativa fino alla maggiore età ed alla frequenza con profitto della scuola fino all’assolvimento dell’obbligo di istruzione e formazione (oltre ad un corso di storia, cultura e cittadinanza e Costituzione).
11 In Emilia-Romagna è stato predisposto un ampio programma di formazione dei docenti sul tema dell’interlingua. Ne parla G.Cerini sul sito “edscuola”. Cfr. http://www.edscuola.it/archivio/riformeonline/intercultura.htm
12 Il testo del documento, elaborato dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione nel 2007, è reperibile sul sito del MIUR: cfr. http://www.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/pubblicazione_intercultura.pdf