Una Corte Costituzionale poco…comprensiva (!?)
Sta determinando notevole fibrillazione la sentenza della Corte Costituzionale n. 147 del 5-6-2012, con la quale il massimo organo di giurisdizione della nostra Repubblica dichiara incostituzionale il comma 4 dell’art. 19, della legge 15 luglio 2011, n. 111. In sostanza attesta che il contenuto di quel comma, che prevedeva nuove regole per la riorganizzazione della rete scolastica (obbligatorietà degli istituti comprensivi nel primo ciclo e soglia minima degli istituti elevata a 1000 allievi) è da considerarsi illegittimo, perché in contrasto con l’ordinamento costituzionale.
Cosa dice la sentenza della Corte
In sostanza, la Corte ritiene che quota 1.000 sia un elemento di dettaglio troppo rigido, perché non consente di apprezzare specificità ed esigenze di ogni territorio. Inoltre, in materia di programmazione del servizio sul territorio (il c.d. “dimensionamento”) il quadro normativo è ormai chiaro, fin dal D.lgs 112/1998 e dal Dpr 233/1998, quindi ben prima del rafforzamento degli assetti federali della nostra Repubblica (con il nuovo Titolo V del 2001) e affida tale competenza alle Regioni.
Inoltre, la legge 111/2011 (di conversione del decreto-legge 98) sarebbe stata adottata senza rispettare il principio della leale collaborazione Stato-Regioni. In effetti il Governo non ha adottato alcun decreto sui parametri con cui realizzare il dimensionamento, procedimento che va assunto d’intesa con le Regioni. Sembrerebbe, leggendo il dispositivo della sentenza, che l’ipotesi dell’istituto comprensivo sia una mera scelta di organizzazione del servizio scolastico del primo ciclo sul territorio, dunque non una norma generale da lasciare allo Stato, né un “principio fondamentale” dell’ordinamento statuale. Ma in questo modo, aggiungiamo noi, finisce con il depotenziare l’impatto innovativo della scuola “verticale”. Tutto viene ricondotto alla programmazione dell’offerta formativa nel territorio, già affidata dal Dpr 233/1998 alle Regioni, prima ancora della riforma “federale” del Titolo V della Costituzione (2001), come ben esplicitato dalla Corte nella Sentenza 200/2009 più volte richiamata anche in questa occasione.
Invece non ci sono rilievi della Corte sul comma successivo dello stesso articolo (il comma 5 dell’art. 19) che riconosce come la provvista/assegnazione dei Dirigenti scolastici alle scuole sia sicuramente un compito dello Stato (non fosse altro perché i dirigenti sono funzionari dello Stato). Dunque, non appare risolto il nodo di una competenza concorrente molto particolare, per cui alle Regioni spettano decisioni in materia di programmazione del servizio e delle scuole, ma allo Stato compete l’assegnazione delle relative risorse umane (questa era la ratio della Sentenza 13/2004 della stessa Corte). Una competenza decisiva, perché condiziona pesantemente le stesse scelte programmatorie. La mancata assegnazione di dirigenti e direttori dei servizi amministrativi rischia infatti di vanificare l’idea stessa di “autonomia” dell’istituzione scolastica, privandola dei soggetti indispensabili per darle effettiva consistenza.
Le regole del federalismo
La Corte basa la sua interpretazione richiamando e delimitando il significato delle “norme generali” e dei “principi fondamentali” che, comunque, richiedono poi successivi interventi legislativi e amministrativi delle Regioni. Riprendiamo testualmente dalla Sentenza 147/2012:
Si è detto, a questo proposito, che rientrano tra le norme generali sull’istruzione «quelle disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell’istruzione (interesse primario di rilievo costituzionale), nonché la libertà di istituire scuole e la parità tra le scuole statali e non statali». Sono, invece, espressione di principi fondamentali della materia dell’istruzione «quelle norme che, nel fissare criteri, obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in ordine alle modalità di fruizione del servizio dell’istruzione, da un lato, non sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema d’istruzione che caratterizza le norme generali sull’istruzione, dall’altra, necessitano, per la loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del legislatore regionale» (sentenza n. 92 del 2011 che richiama la precedente n. 200 del 2009).
Alcuni motivi di perplessità sulla Sentenza
Ci si chiede ora se la definizione di parametri numerici generali, per la formazione delle classi, la sopravvivenza delle scuole/plessi, la costituzione di istituti autonomi, siano o meno una norma di carattere generale, se servano a dare unitarietà al sistema educativo, se rappresentino – in qualche modo – i livelli essenziali delle prestazioni da garantire in ogni territorio e che, di conseguenza, devono essere integralmente finanziati dalla fiscalità generale (dallo Stato), sulla base però di uno standard di costo (come ci ricorda la legge sul c.d. “federalismo fiscale”).
Le Regioni chiedono di poter operare in piena autonomia in materia di dimensionamento, per poter apprezzare le effettive esigenze dei loro territori. Ovviamente sono consapevoli che decidere per certi parametri o per altri di maggior favore comporta un onere aggiuntivo, che dovrebbe essere posto a carico della fiscalità generale e che comunque dovrebbe scaturire da una decisione condivisa tra tutte le Regioni e lo Stato (questa è una classica questione di federalismo “solidale”). E comunque, fissare una soglia minima (nel caso contestato 1.000) non consente di agire con la necessaria flessibilità. Alcune Regioni hanno già adottato il principio di fasce di oscillazione, come l’Emilia-Romagna, che l’ha posizionato tra 800 e 1200.
Ci si chiede anche se la scelta del “comprensivo” non debba essere considerata materia di ordinamento scolastico, in quanto in questo modello entra in gioco non solo l’organizzazione/aggregazione dei diversi plessi di un territorio, ma una certa idea di scuola di base, con un suo curricolo, una sua comunità professionale, un suo organico funzionale di istituto. Si tratta di configurare un vero e proprio modello di scuola, che si fatica a lasciare alle sole dinamiche e spinte localistiche.
Ed ora, che succede?
Certamente, ogni Regione potrebbe prendere spunto dal dispositivo della Corte Costituzionale per rimettere in discussione le operazioni di dimensionamento effettuate in questi mesi in previsione del prossimo anno scolastico 2012-13. Va però ricordato che i piani di dimensionamento sono stati legittimamente approvati con Delibere regionali, e seguendo la trafila delle proposte elaborate e deliberate dalle amministrazioni comunali e provinciali. Quindi nel pieno rispetto delle prerogative che la norma (Dpr 233/1998) attribuisce alle autonomie locali. È pur vero che molte operazioni sono state compiute frettolosamente sotto l’urgenza della legge 111/2011 (che avrebbe preteso un dimensionamento da avviarsi fin dal presente a.s. 2011-12), con uno standard molto elevato (con un minimo di 1000 allievi, che raddoppiava la precedente soglia di 500 allievi), sotto la spada di Damocle della “disattivazione” della figura del dirigente scolastico.
Una rinegoziazione “estiva” della programmazione già effettuata potrebbe comportare un effettivo rischio di disarticolazione del servizio scolastico (assegnazione dirigenti, organici del personale, ecc.) per l’anno scolastico che si deve ri-avviare (il 2012/13) e sarebbe saggio eventualmente rimandarla all’anno successivo (2013/14). Questo sembra l’orientamento prevalente tra le regioni, ad esempio espressomi dall’Assessore regionale della Toscana, Stella Targetti, in margine al convegno del 16 giugno 2012 su “Scuole senza zaino”.
Ma le nuove decisioni regionali come sarebbero orientate? Si rimette tutto in gioco? Si torna indietro sulla scelta del comprensivo? Si rivedono a fondo le scelte di dimensionamento già effettuate, riducendo la “pezzatura” degli istituti? Oppure, si intende ripensare una strategia di lungo respiro, pluriennale (fino a tutto il 2014-15), per delineare una organizzazione “sensata” del servizio educativo nel territorio. Che comprenda anche una rigorosa verifica del modello di istituto comprensivo, che si è diffuso largamente nel nostro paese, ma che forse non è stato accompagnato da adeguate misure di supporto organizzativo (e curricolare).
Quanto pesano i numeri
Sarebbe un errore basare l’analisi delle prospettive future unicamente sulla questione numerica. È certamente importante, ma non decisiva. Un istituto non è solo un contenitore di plessi disparati, ma una entità (anche territoriale) che deve avere una sua coesione, coerenza, compattezza: è auspicabile che un allievo possa avere la prospettiva di frequentare i diversi gradi di istruzione previsti all’interno del medesimo istituto comprensivo. Questo significa che il numero è un indice, ma ciò che conta è il posizionamento della scuola nella comunità di riferimento, il suo essere un reale punto di aggregazione e di iniziativa progettuale, curricolare, territoriale. Più che numeri rigidi saranno necessarie fasce di oscillazione (es: 800-1200, 600-1400) che consentano una corretta ambientazione dell’istituto. Ma soprattutto sarà necessario ridare “senso” alla scelta del comprensivo, riscoprirne le ragioni dello stare insieme, le convenienze, i benefici, il valore aggiunto. Se il comprensivo non è più sostenuto dalla forza della legge (ma quando mai lo è stato, al di là della forzatura del decreto del 2011?) la sua adozione dovrà essere frutto dalla convinzione dei vantaggi possibili di questa scelta. Ne abbiamo più volte parlato, ma li vogliamo ri-sintetizzare in:
-
più stretto legame con il territorio, la comunità, per farne esprimere le aspettative, i bisogni, ma soprattutto per attingere le risorse (culturali e non), attraverso la stipula di accordi, di protocolli, di un’offerta formativa territoriale; l’istituto comprensivo manda un messaggio di affidabilità alla comunità, che è il prerequisito per riacquistare la dignità “perduta”;
-
modello organizzativo adhocratico, basato sul fattore umano, sull’idea di comunità professionale che sa accogliere e valorizzare le diverse virtù di cui sono portatori insegnanti che appartengono a storie, identità diverse; si può lavorare sullo staff, sulle figure che presidiano aspetti dell’organizzazione, sui dipartimenti. Il comprensivo dovrebbe essere percepito dai suoi “abitanti” come un luogo per crescere, imparare, decidere meglio, stare bene, essere più efficaci;
-
un curricolo verticale, all’insegna della continuità (unitarietà e coerenza) e della discontinuità (come progressione degli apprendimenti), ove è possibile coordinare e differenziare gli ambienti di apprendimenti, attraverso soluzioni diverse (classi ponte, bienni dei snodo, ecc.), ma rafforzando la “visione d’insieme”, il senso di un progetto comune, di una responsabilità da condividere.
Non è un caso che le operazioni di revisione delle Indicazioni per il primo ciclo stiano avvenendo (circolari 31, 46, 49 del 2012) all’insegna di un migliore e più approfondito raccordo tra i diversi segmenti (infanzia, primaria, secondaria), sia come riallineamento dei percorsi curricolari (da innestare in una logica verticale, non necessariamente lineare, ma ricorsiva, ciclica), sia con la definizione di un profilo del 14enne che dovrebbe essere impegno comune di tutti i docenti che accompagnano la formazione di un allievo dai 3 ai 14 anni, in tal modo sanzionando le ragioni dello stare insieme di scuola dell’infanzia, scuola primaria e scuola secondaria di I grado.
Sarebbe paradossale che la Sentenza della Corte, che riconosce protagonismo e responsabilità delle Regioni e degli Enti locali, finisca per mettere in crisi un modello organizzativo (l’istituto comprensivo) che nasce proprio per rafforzare il dialogo tra la scuola e la sua comunità.
Giancarlo Cerini